CHIACCHIERANDO DIETRO L’OBIETTIVO: INTERVISTA A BEATRICE QUADRI

chiacchierando dietro l obiettivo
Chiacchierando dietro l'obiettivo: intervista a Beatrice Quadri

Fotografa e videomaker. Schiva e riservata. Abituata a stare dietro all’obiettivo e mai davanti. Questa è Beatrice Quadri. Siamo riusciti a strapparle un’intervista in cui ci racconta del suo lavoro per National Geographic e per altre grandi produzioni in giro per il mondo.

10 botta e risposta:

Nome: Beatrice

Occupazione: eh…(ci pensa e sospira) chiamiamola comunicazione differente

Luogo del cuore: non ci sono ancora stata

Libro del cuore: non ce l’ho perché sarebbe bello prendere un pezzo di ogni libro che ho letto e metterli assieme… magari quello che scriverò io (ride)

Film preferito: uno dei miei più grandi riferimenti è The Tree of Life di Malick, però non posso definirlo il mio film preferito in senso assoluto… come per il libro prenderei tanti pezzi di film e li metterei assieme.

Il giorno più bello della tua vita: non lo so, magari lo vivrò un giorno

Il giorno più brutto della tua vita: …spero che non ce ne siano più

Il viaggio più bello: non l’ho ancora fatto

Il viaggio più brutto: non l’ho mai fatto

Il tuo motto: c’è una bella frase di Lewis Carroll che recita pressapoco “se non sai dove stai andando qualunque strada ti porterà lì”.

 

Ora conosciamoci meglio. Ci racconti un po’ di te?

Ho iniziato ad approcciarmi all’ambiente fotografico già da piccolina perché mio padre ha sempre scattato. Ho preso in mano per la prima volta la macchina fotografica che ero una bambina di 10 anni. Era una Nikon. Successivamente ho capito come nascevano le fotografie durante gli anni delle superiori perché la mia scuola aveva una camera oscura. È lì che ho avuto il mio primo approccio “serio”. Sempre durante gli anni delle superiori, avrò avuto circa 18/19 anni, ho imparato a scattare capendo le tecniche, perché prima scattavo a caso.

A quel punto ho realizzato che dal mio punto di vista la fotografia era limitante, nel senso che non mi dava la possibilità di comunicare tutto quello che avevo in testa. L’unico modo era associare alla fotografia un testo. Il raccordo perfetto era farlo diventare un video. Quindi ho iniziato a fare video, noleggiavo telecamere, mi approcciavo a persone che le usavano cercando di capire, facendo test home-made e cercando di mettere insieme i pezzi attraverso il montaggio, come se fosse un Tetris. Così mi sono ritrovata a dire “Ah ok, funziona perfettamente quello che voglio dire!”.

Finite le superiori ho dunque deciso di non specializzarmi in fotografia ma in produzioni video. Non volevo tuttavia un’istruzione limitante, quindi, visto che avevo fatto un’istituto tecnico, ho voluto prendere una laurea in discipline umanistiche e filosofiche. Ero sicura che avrei poi portato questa concezione anche fuori dall’università, facendola diventare altro. A dir la verità però il lavoro, quello vero e proprio, l’ho imparato solo ed esclusivamente lavorando. Oggi però non mi sento ancora una professionista affermata, sto ancora imparando e sento che la mia crescita non sia affatto esaurita, ed è questa la cosa bella: l’umiltà alla fine è la chiave per poter lavorare.

INTERVISTA A BEATRICE QUADRI

Lavori all’interno di produzioni per grandi nomi, fra cui National Geographic Channel. Qual’è il tuo ruolo?

Il mio ruolo per le produzioni è quello del jolly. In ogni produzione, in base al ruolo che serve vengo chiamata. A volte sono la prima camera, a volte la seconda, a volte la terza. A volte mi occupo solo ed esclusivamente delle foto, altre del backstage. La parte più complicata dell’essere un jolly è che hai veramente un sacco da fare e, anche se potrebbe essere un ruolo secondario, è quello che occupa più tempo. Sono quella che rimane in camera la sera a fare la post, il log di tutte le camere. Controllare le foto, il girato. Mio, di Paolo, Max. Due parole a me stessa. Un caffè. Mi ripeto cento volte se ho scaricato tutto il girato, se ho fatto le copie, se è tutto in ordine. Faccio ordine in testa, poi ricomincio. È un lavoro bellissimo.

Dunque fotografia e video. Due discipline così simili ma così diverse. Secondo te cosa hanno in comune e cosa le distingue?

Il video perché sia funzionale deve avere una chiusura. Qualunque ripresa fai deve essere messa in un cassetto (che è l’editing) ed essere conclusa, con una storia, delle musiche, ecc. La fotografia è già una comunicazione di per sé a cui non serve una successione.

Sono completamente diversi anche in fase di scatto, nel senso che delle luci possono essere perfette per quanto riguarda la fotografia e possono essere tutt’altro per quanto concerne il video. Anche se sono due dinamiche completamente differenti traducono la stessa cosa. Per il video ci vuole più tempo in fase post-produttiva mentre per la fotografia magari ci vuole più tempo in fase pre-produttiva. Quindi dipende da cosa stai facendo.

Una cosa bella del reportage fotografico per esempio è che mi permette di cogliere gli attimi a spot. Sono io che mi muovo in base a quello che vedo. Per quanto riguarda il video invece questa fase arriva dopo, nel senso che cerchi di riprendere ciò che prima hai captato possa essere funzionale, poi però in fase di post c’è tanto scarto. A volte invece mi è capitato di andare in sala montaggio e usare molto più scarto rispetto a tutto il resto, perché magari è più comunicativo. È bello il montaggio, è una cosa che amo. È come dipingere un quadro. Le dita sono i pennelli e tutto quello che hai nella testa i colori.

Sono due discipline diverse. Ma entrambe fanno uscire qualcosa che c’è dentro di me, per questo motivo ritengo siano importanti, meravigliose e spesso magiche – sicuramente uniche.

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Cosa significa per te lavorare a fianco di registi e direttori della fotografia così importanti?

All’inizio provavo un senso di inadeguatezza totale. Sono molto umile per quanto riguarda la mia professione e come ho detto prima ritengo che il mio processo di apprendimento non sia ancora finito.

Sono stata però molto fortunata, perché le persone con cui lavoro mi hanno permesso di concretizzare questa mia filosofia di pensiero. Sono molto sensibili e molto umili. Questo mi ha portato a pensare “Wow, siamo tutti sulla stessa barca, anche se c’è qualcuno più alto di te di livello”. Questa cosa mi ha tranquillizzato e, nonostante la responsabilità fosse alta e io fossi agli inizi, mi son sentita a mio agio, perché loro mi hanno fatto sentire a mio agio.

Lavorando con queste persone sono cresciuta. Come professionista, come donna. Ho scoperto che l’umiltà (unita alla precisione, alla tenacia e al talento) è la chiave del successo. E l’ho scoperto osservando le persone con cui ho avuto il piacere di lavorare.

Ci sarebbero tanti nomi che mi piacerebbe citare, perché tutti mi hanno insegnato qualcosa. Max, il regista di National, di Tommy e gli altri e di tanti altri progetti fatti assieme, mi ha fatto capire l’importanza di lavorare serenamente, con passione. Con la testa ma soprattutto con il cuore. Paolo mi ha insegnato a lavorare con il sorriso che, credetemi, non è scontato. Nelle dinamiche che vivo di troupe, in cui tutti hanno un ruolo diverso, tutti rispettano il ruolo dell’altro e sappiamo anche consigliarci. Ascoltarci, sempre. Comunichiamo consigli, piuttosto che errori. La cosa importante è che possiamo parlare, esprimere i nostri pareri. Questa cosa è bellissima, no?

C’è, in altre parole, l’umiltà dell’ascolto.

Qual è stato il progetto al quale hai collaborato che ti ha maggiormente coinvolto e perché?

Ce ne sono tanti … troppi.

Il progetto che però mi ha coinvolto di più a livello di crescita e a livello empatico è stato Il viaggio di Sammy. E’ stato il lavoro che ho fatto con Sammy, non tanto per il viaggio in sé ma per il rapporto che si è creato con lui: un rapporto vero. Questo mi ha portato a reagire in maniera diversa … credo in tutto. Il viaggio, inteso non come spostamento sulla Route 66 ma come produzione, è durato 5 mesi ed è ciò che mi ha cambiato maggiormente.

Sammy come persona mi ha aperto un mondo…in quel viaggio c’è stata della realtà. Vivevamo a stretto contatto tutti i giorni per quasi 24 ore al giorno, sempre in viaggio e questo creava tanto stress e tante tensioni. Ciononostante siamo tutti tornati a casa dicendo “Wow”. Credo sia valso per tutti. Solo un semplice e infinito: “Wow”. Il viaggio di Sammy ci ha uniti, siamo riusciti a creare un gruppo di lavoro che si capisce al volo, con gli sguardi. Per questo lavoriamo bene assieme. Siamo diventati più che rodati…quasi come una famiglia. E il fatto di esser diventati una famiglia grazie ad un viaggio di lavoro scombussola ma è bellissimo.

Il secondo progetto che mi ha coinvolto tantissimo è stato Tommy e gli altri, il film di Max (Massimiliano Sbrolla) e Gianluca Nicoletti. Vi consiglio soltanto di guardarlo, c’è ancora la possibilità di farlo. Credo siano le parole più riassuntive per spiegare tutto quello che c’è dentro quel progetto e io ci sono coinvolta con la mia professionalità ma soprattutto con la mia testa e il mio cuore.

INTERVISTA A BEATRICE QUADRI

Grazie al tuo lavoro hai viaggiato parecchio per il mondo. Qual è la top 3 dei posti che hai visto e perché?

Non faccio mai delle classificazioni però diciamo che i posti di cui mi sono innamorata sono stati sicuramente l’America, intesa in generale dal punto di vista di grandezza. Probabilmente il fatto di averla attraversata facendo la Route 66 ha amplificato questo senso però l’America è grande. La sensazione ad esempio che ho avuto quando ho visto New York la prima volta è stata di sentirsi mancare il fiato.

Poi c’è l’Islanda. Non ho mai visto un posto più naturale dell’Islanda. C’è solo natura, a parte Reykjavik e poco altro. È un po’ un controsenso, perché chi ha visto l’Africa di solito dice che l’Africa è la terra, però a me non ha dato quella sensazione di natura come l’Islanda. E’ un posto dove tornerei domani, anche se ho sofferto il freddo e le intemperie…però lì era come se accettassi la natura, cosa che non ho fatto ad esempio in Cina dove ero incazzata per il freddo.

Un altro posto che mi ha emoziono tantissimo ad esempio è la Camargue. Ho corso su una strada che ricordo fosse come in un racconto. Da una parte il mare, dall’altra i fenicotteri, i cavalli e il vento. Pensi di essere chissà dove e invece la Francia è a due passi da casa. Mi ricordo questo tratto di strada perché mi ha fatto pensare che spesso vogliamo andare chissà dove pensando che i posti più belli siano dall’altra parte del mondo, poi ti innamori di un viale selvaggio e spennellato francese.

Per sintetizzare direi l’Islanda da un punto di vista di natura, l’America da un punto di vista di grandezza. Il Sudafrica per … il vento.

Quali sono i suggerimenti che ti senti di dare a chi vuole intraprendere un viaggio fotografico?

Il suggerimento più semplice è quello di avere uno spirito di osservazione tuo. Se hai uno spirito d’osservazione tuo e riesci a comunicare qualcosa di tuo… beh, quello è perfetto, perché lo scatto è veramente tuo!

Se poi lo spirito d’osservazione si traduce anche in tecnica e riesci a tradurlo con la macchina fotografica in bellezza tanto meglio. Oggi siamo tutti fotografi (è una retorica): l’unica cosa che fa davvero la differenza è cosa guardi e come la guardi.

L’occhio fa la fotografia. Ovviamente poi tecnicamente ci sono mille consigli ma non sono la persona più adatta a darli. Per me la cosa fondamentale è saper guardare.

Secondo me l’errore che si fa durante le fotografie di viaggio è voler raccontare per forza una cronistoria. Ad esempio vado in una città e della città devo mostrare e raccontare tutto. Invece a volte riesci a cogliere quello che c’è dentro la città anche solo da un dettaglio.

Per me può avere più valore una foto di un’abat-jour messa in un angolo di un bar rispetto al monumento perché quella per me può raccontare meglio Parigi rispetto alla vista dalla Tour Eiffel. Magari la panoramica ci dev’essere nel pacchetto delle 10 immagini di Parigi, però è molto più significativo quel dettaglio lì perché in quel momento ho realizzato “Sono a Parigi”, quindi significa che quella è la mia fotografia di viaggio. Ovviamente ognuno ha il suo.

Insomma il miglior consiglio che mi sento di dare è fidarsi di più del proprio sguardo che della regola, specialmente se fai un servizio amatoriale e non commissionato.

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Com’è la tua giornata tipo?

La mia giornata tipo non esiste: tutti i giorni sono diversi. Questa è la cosa bella, anche se magari c’è una routine periodica. Però non so ad esempio a che ora mangio, dove mangio, come mangio, a che ora e dove mi alzo, non so a che ora vado a letto ecc. A volte la mia domenica è il mercoledì e a volte il mio mercoledì è il sabato sera.

All’inizio era un po’ difficile: quando hai 25 anni e dici “Sabato sera devo lavorare” gli amici rispondono “Ecco, è arrivata quella che deve lavorare il sabato sera”.

Il fatto di non avere una regola, un orario, una linea da seguire, per me è perfetto. Forse è un po’ borderline, però è bello perché fa parte della mia personalità.

La mia giornata tipo ha solo una regola: andare a letto dicendo che ho fatto qualcosa di bello per me. Che può voler dire anche che oggi ho fatto i muffin alla mela… (ride)

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Esiste “l’altro lato della medaglia” dello splendido lavoro che stai facendo?

E’ un lavoro artistico, quindi da una parte può non essere sempre soddisfacente a livello economico, perché magari quello che fai dovrebbe esser pagato di più. In quello che fai ci metti veramente l’anima e questo non sempre è capito. Spesso ad esempio non viene percepito lo sforzo intellettuale.

L’altro lato della medaglia forse è sentire spesso questa frase: “Ma questo è il tuo lavoro? Ma fai questo per vivere? Ma davvero?”

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sono tanti e spero siano positivi. Chissà cosa mi daranno, anche non in termini economici perché magari il lavoro più figo non è quello che ti paga di più…è più un discorso interiore.

Il fatto di avere tanti progetti, credo sia un grande progetto di vita, no?

Perché il bello del viaggiare è viaggiare per cercare altri incastri e altre strade che ti portano ad altri lavori, altre conoscenze…ad altro.

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