Arrivederci Carlos Gardel
L’ultimo passaggio in Colectivo deve per forza essere il più accidentato. Non che sia successo nulla di tragico, ma pazienza e schiena sono davvero giunti al limite di sopportazione. Nemmeno il paesaggio oltre il finestrino mi interessa più. Galleggio nel solito dormiveglia nel quale basta un paragrafetto della lettura da viaggio a farmi assopire. Inutile, durante queste traversate – autobus o aerei che siano – non sono riuscito a rendere proficuo il tempo che passava. Alla fine torno a Buenos Aires, da dove tutto è cominciato. Mi aggiro tra le vie della capitale quasi fossi del tutto a mio agio con la topografia del luogo. Infatti sbaglio orientamento un’altra volta. Andare a sud anziché a nord da queste parti non è un errore da poco. Ho l’impressione che le suole delle scarpe si siano fuse alle piante dei piedi. Alla fine mi arrendo e prendo un altro taxi. Non ne potevo più, caricato per giunta dello zaino. Finalmente Palermo, saluto Veronica e mi schianto sul divano in attesa che torni Andrea. Stasera si mangia. Il ripasso culinario ve lo risparmio. Il mio stomaco, al contrario, non si risparmierà.
Nei miei piani gli ultimi due giorni a Buenos Aires dovrebbero essere quelli meno faticosi, ma alla fine mi ritrovo sempre a camminare e a perdermi, ripassando spesso negli stessi luoghi visitati durante il primo soggiorno. Scatto qualche foto nella speranza di aver acquisito qualche competenza in più, anche solo per essermi applicato. Lascerò a voi il compito di giudicare il risultato.
Riprendo un cammino già percorso e senza volerlo mi imbatto in opere come la Floralis Generica nella piazza delle Nazioni Unite, ribattezzata Plaza de la Flor. Si tratta di un gigantesco fiore di metallo che si apre tutte le mattine quando sorge il sole e si chiude al tramonto. Simboleggia la speranza che nasce e si rinnova quotidianamente. Ovviamente passo a metà giornata e il fiore se ne sta lì, bello bello, immobile.
A proposito, in questo caso parliamo di gente che di speranza ormai non ne ha più. Sono riuscito a scattare qualche foto del cimitero della Recoleta. Sembrerà macabro – e in effetti lo è – ma questo scenario rappresenta una delle esperienze più affascinanti che può offrire la città. Si tratta di una struttura labirintica che ospita un numero infinito di cappelle dagli stili più disparati.
L’altro aspetto degno di nota è il fatto che molte di queste giacciono in uno stato di lento abbandono. Pareti sgretolate, cancellate divelte e arrugginite, vetri infranti, bare semiscoperchiate. Il cimitero chiude alle sei, ma assicuro che aggirarsi tra quelle stradelle, vedendo i resti di un cranio, fa rabbrividire. Si respira davvero l’aria del trapasso e dopotutto, per un viaggio che sta per concludersi, una fermata in questi luoghi sinistri e meravigliosi acquista un certo significato. Evito di attardarmi troppo.



Diamoci una botta di speranza e come la Floralis Generica apriamoci alla vita. Contrariamente al fiore meccanico, la sera diventa il momento di una possibile rinascita. È l’ultimo giorno e da bravo turista voglio vedere almeno una volta dei ballerini di tango. Di posti ce ne sono, ma Andrea mi consiglia La Catedral, il nome evocativo mi ha già conquistato. Fortunatamente non sarò solo stasera, Veronica mi accompagnerà.

La Catedral è davvero un tempio, una struttura ricavata da una vecchia fabbrica, immersa in una sacra oscurità. Le uniche luci che ti aiutano a orientarti calano dal soffitto o incorniciano il gigantesco ritratto di Carlos Gardel, il più grande cantante tanguero d’Argentina. Lui è il ministro della sacra funzione che viene celebrata davanti ai nostri occhi. La sala principale è molto spaziosa e i pochi tavoli a disposizione sono spinti verso il banco sul fondo, per dare spazio ai ballerini di muoversi comodamente secondo gli insegnamenti di due maestri provetti. Sta proprio qui la particolarità de La Catedral. Chiunque, pagando il biglietto d’ingresso, può ricevere un’ora di lezione gratuita. Io, vergognosamente, decido di passare. Eppure appeno varco la soglia comincio a credere che rimpiangerò la mia decisione. Ci sediamo per mangiare qualcosa, ma non riesco a distogliere lo sguardo dal gruppo composito di giovani e meno giovani che si divertono a provare le figure di un ballo che pare tutt’altro che semplice. Non è solo tecnica, è soprattutto la complicità che si instaura con il partner. E per complicare le cose, i maestri cambiano spesso le coppie. Tanto divertente da guardare, quanto lo deve essere da provare di persona. Non fate gli asini, ballate il tango a La Catedral. E tu non compatirmi Gardel, la prossima volta provo anch’io. La prossima volta, sempre la prossima… Quantomeno ho una ragione in più per tornare in Argentina. Più di una a dire il vero.

E così l’ultima notte finisce, immaginavo qualcosa di più dimesso e raccolto e invece capita di finire tra aspiranti tangueros in un’atmosfera atemporale. Prima di partire per l’Argentina ho pensato fosse d’obbligo vedere dei ballerini di tango, una tappa obbligata, una concessione ai tragitti tradizionali. Sinceramente non è mai stata tra le mie fissazioni. Ma dovesse capitare l’occasione – mi dicevo – perché no? Così ho sempre spostato l’eventuale incombenza a una giornata di stanca. Che dire, procrastinare non è sempre un errore. Mi ha regalato un finale indimenticabile.
Torno nella casa che mi ha ospitato in tutti questi giorni. Andrea si è materializzato dopo il lavoro e insieme a Veronica sbottigliamo un vinello, raccontando l’esperienza della Catedral prima di andare a letto. Cerco di allungare il tempo, preferirei annoiarmi nella speranza che i minuti diventino ore e le ore giornate. Alla fine ci si arrende alla stanchezza. Mi accascio sul divano letto in attesa del nuovo giorno.
Apro gli occhi. Buenos Aires è ancora lì, ma non per molto. L’ultima colazione è la più difficile. Ti prendi cura di ogni istante, di ogni gesto, sperando che la memoria non li cancelli. Scendo in strada dove il taxi mi aspetta. Carico il bagaglio, il tempo di un ultimo saluto ad Andrea e Veronica e parto. Mi guardo indietro, aspettando di vedere tutto rimpicciolirsi. La casa dove ho alloggiato, le persone che mi hanno ospitato.
Inesorabile la dissolvenza incrociata è già cominciata. Sei in Argentina ma in trasparenza vedi già i paesaggi noti, la casa e la scrivania dove trascorri la maggior parte della tua giornata. Diventeranno più nitidi mano a mano che ci si avvicina.
L’Argentina scolora e e svanisce.
E in un attimo ti ritrovi a smontare valigie. Non mi sono portato granché come souvenir, a parte due pacchi di alfajores (biscotti ripieni di dulce de leche). Controllo che la D200 sia ancora integra e con grande sollievo mi accorgo di non aver dimenticato nulla, nemmeno il copriobiettivo. È proprio vero che i viaggi ti cambiano. Pensare che qualche mese prima avevo dimenticato la macchina parcheggiata a venti chilometri da casa. E non avevo bevuto. Grossi cambiamenti all’orizzonte.
Prendo la macchina fotografica e comincio a scorrere le immagini. Scrollo le spalle, non saranno il massimo, ma qualcosa raccontano. Se la memoria comincerà a fare cilecca ci saranno loro a darmi una mano.
Di sicuro mia madre non le vedrà.