Ciò che si nasconde – Turchia

Il punto è un altro

C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA di Nuri Bilge Ceylan (2011)

Ciò che si nasconde

Campi lunghi, tempi lunghi, musi lunghi. Tutto è dilatato in questa pellicola che sembra perdere nella maestosità del paesaggio  il punto narrativo. In effetti il succo della storia è tutto racchiuso nelle prime due sequenze. Quello che c’è da sapere è lì.

All’imbrunire tre personaggi si ritrovano a discutere in un’officina, mentre il cielo minaccia di piovere. Stacco. Una squadra di polizia scorta due dei tre elementi appena conosciuti attraverso il paesaggio sconfinato dell’Anatolia alla ricerca del cadavere del terzo uomo, sepolto chissà dove. That’s it! C’era una volta in Anatolia è una sorta di poliziesco che si insinua tra le pieghe esoteriche di una terra misteriosa. Una terra nella quale tutto si smarrisce: la trama innanzitutto che  diviene evanescente molto presto; ma sono soprattutto i personaggi della storia che, in questa indagine, si trovano a ricercare se stessi. Il punto è un altro. La vicenda diventa pretesto e occasione, in particolar modo per il medico legale e il pubblico ministero incaricati del caso, di svicerare le proprie vite. Ogni tappa aggiunge un tassello alle dolorose narrazioni personali  dei personaggi. Il passato torna a galla come se si trattasse di una storia lontana, raccontata distrattamente per trascorrere le lunghe ore di lavoro. Per il pubblico ministero, per esempio, sgorga quasi fosse una fiaba. Poi, più il viaggio si dilunga, più il percorso si inoltra in territori  inesplorati, più i ricordi acquistano consistenza. L’Anatolia del titolo assume una statura non solo geografica, ma anche temporale e non si capisce se i protagonisti si stiano smarrendo nello spazio o nel loro passato. La fatica di questo viaggio si imprime nei loro volti scavati. Non si tratta dell’indagine, della frustrazione di fronte al tentativo da parte dei due colpevoli di tirarla per le lunghe. Il punto, ancora una volta, è un altro e sempre lo stesso. Abbandonarsi al passato non solo è doloroso, ma pericoloso perché quando viene condiviso  con qualcuno si rischia di risolvere un mistero che avresti voluto dimenticare. L’aspetto più rilevante della pellicola di Nuri Bilge Ceylan è questa capacità di rievocare il passato senza mai utilizzare espedienti narrativi noti. Assistere alla proiezione di C’era una volta in Anatolia non è facile, il ritmo viene sacrificato in ragione di un paesaggio che riesce a catapultarti in un mondo completamente diverso, quello interiore dei personaggi.

Qual è il discrimine fra pippa autoriale e coerente-coraggiosa scelta stilistica? Ha senso questa ossessione nel lavorare sui tempi, nel concedere minuti a sequenze che potrebbero durare molto meno? Probabilmente dipende da come il film arriva a ogni singolo spettatore, a quello che sa realmente comunicare a ognuno di noi. D’accordo, è come dire: tutto è soggettivo. Sento già le proteste: «Grazie al piffero»;  «Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, non ce lo metti?». Non sto sviando l’interrogativo! Rileggetevi le righe sopra e la mia risposta la trovate. Che carattere.

Appunti di viaggio:

  1. —> Si avverte qualcosa di ancestrare e antichissimo in quelle dolci colline scosse dal vento. Parlo della scena nella quale il medico legale  supera un lieve dislivello mentre il cielo viene squassato dai lampi. Un lampo illumina improvvisamente una parete scoprendo una roccia dalle fattezze umane. È un attimo, ma qualcosa di nascosto è riaffiorato. Nella memoria del luogo e in quella del  medico.